Men at work. Sostegno alla creazione d’impresa. I Bandi FSE della Provincia

Vi raccoMen at work. Sostegno alla creazione d’impresa. I Bandi FSE della Provinciantiamo quanto possa essere lunga e difficile la strada per ottenere un contributo a fondo perduto, partecipando a bandi provinciali per il sostegno alla creazione di nuove imprese.

L’avviso pubblico emanato dalla Provincia di Ancona, scadenza 14 gennaio 2010, erogava contributi a fondo perduto (25/30 mila euro) a favore di Piccole Imprese con sede nel territorio della Provincia di Ancona (Fondi FSE 2007/2013). Gli obiettivi erano quelli di incrementare la qualità del lavoro mirando all’innalzamento dei livelli occupazionali e al raggiungimento del pieno impiego. L’importo complessivo previsto era di 900.000 euro suddiviso su tre Assi: Innovazione (400mila), Occupabilità (300mila) e Inclusione sociale (200mila). Potevano partecipare tutte quelle imprese che si erano costituite nell’arco di tutto il 2009.

Le imprese che hanno partecipato al Bando erano del tutto consapevoli del fatto che non era per niente una passeggiata, perché il progetto da presentare doveva contenere una serie di caratteristiche precise e rigorose. Molti, con caparbietà e forza d’animo, alimentati dalla speranza di far passare un’idea in cui credevano molto, si sono fatti assistere da consulenti e professionisti. Altri hanno fatto tutto da soli.

Trascorsa la scadenza, tutti quanti, in religiosa attesa, hanno cominciato a sperare di entrare in graduatoria e di poter utilizzare quel gruzzoletto tanto agognato. Certo, non ci si affidava completamente a questo contributo però si poteva contare sul fatto di poter recuperare almeno le spese di avviamento.

La commissione di valutazione dei progetti pare si sia riunita solo a settembre (8 mesi dopo la scadenza del bando) e finalmente in autunno le tre graduatorie sono state pubblicate. Quella della Occupabilità presenta 77 progetti ammessi. A questo punto, quelli della parte bassa dell’elenco hanno cominciato a disperare, quelli della parte centrale sono rimasti con il fiato sospeso, e a tutt’oggi, dopo più di un anno, solo i primi 23 hanno ricevuto la comunicazione di ammissione (se qualcuno di questi rinuncerà la graduatoria scivolerà automaticamente verso il basso). Né è dato sapere se arriveranno a breve o lungo periodo altre risorse per finanziare le decine di progetti in graduatoria.

Alimentare inutilmente speranze ed attese per così tanto tempo è proprio una gran brutta cosa anche perché nessuno sa quando queste graduatorie rimarranno ferme per mancanza di fondi; ma, soprattutto, non si capisce perché dalla scadenza del bando all’utilizzo dei fondi è trascorso più di un anno! Siamo consapevoli che la ripresa è difficile ma, se ci mettiamo pure che le difficoltà di avvio di nuove iniziative imprenditoriali si sommano alla lunghezza e alla farraginosità delle procedure burocratiche, essa sarà anche più lunga.

Men at work: il negozio temporaneo. Spot o tendenza?

Men at work: il negozio temporaneo. Spot o tendenza?Mentre ci sforzavamo di sostenere che la fedeltà verso i negozi del centro poggia sulla costruzione duratura di un rapporto fondato sulla riconoscibilità, ecco che a Senigallia l’altro giorno hanno inaugurato un negozio che ne è l’esatto contrario.

Il Negozio temporaneo o Pop Up Store è tra i più nuovi ed efficaci strumenti del Marketing Emozionale. Intanto, è un negozio a tempo determinato (alcune settimane, un mese) e fonda la sua matrice strategica sulla non convenzionalità volta a realizzare, grazie all'effetto sorpresa, un'esperienza di consumo unica, orientata a stimolare emozioni. La location di solito è un cinema, un teatro, una fabbrica una galleria d’arte, raramente un semplice punto vendita. Gli strumenti di comunicazione utilizzati sono fondamentalmente due: il Web e il passa parola.

Il primo negozio a tempo apre a New York nel 2004 ad opera del pubblicitario Russel Miller che ha allestito il suo negozio temporaneo in un loft abbandonato di 400 metri quadrati, tenendolo aperto un mese, al termine del quale, visto il successo, smontò tutto per riaprirlo in altre città. Il fenomeno, vista la sua originalità, ha avuto rapida diffusione soprattutto nelle grandi capitali europee fino a sbarcare in Italia e precisamente a Milano nel 2007.

Gli organizzatori del Negozio temporaneo di Senigallia hanno descritto così questa iniziativa: “In una società in cui tutto corre, cambia e si trasforma, i temporary shop sono l’espressione più immediata dell’attuale fluidità economica e rendono esplicito l’aspetto provvisorio e precario del mercato: il mercato cambia forma, diventa momentaneo, transitorio, temporary. Obiettivo del temporary shop è stimolare la curiosità del consumatore inducendolo a visitare il negozio prima che sia troppo tardi”. Di questa dichiarazione quello che lascia sgomenti è soprattutto “il prima che sia troppo tardi”, rinforzato dalla presenza ansiogena di un tabellone elettronico che scandisce i giorni, le ore, i minuti e i secondi che mancano alla chiusura del negozio temporaneo.

Se vogliamo, questo tipo di negozio ricorda molto l’ambulante delle nostre piazze, con la differenza però che mentre la nostra amata bancarella la troviamo tutti i giorni o al giovedì di tutte le settimane e al solito posto a vendere le cose che ci servono, l’ambulante ‘temporaneo’ lo possiamo trovare solo qualche settimana in un posto qualsiasi della città, ma poi è molto probabile che non lo vedremo mai più.

Il negozio temporaneo, in definitiva, è quindi un luogo che non ‘lega’ nessuno, perché è solo di passaggio; e finchè fa una comparsa spot nessun problema, ma se diventasse una tendenza? Potrebbe essere un’ulteriore minaccia alla già difficile sopravvivenza dei negozi del centro? E molto più di un mega outlet alle porte della città? In effetti, qualche preoccupazione questo Pop up Store la desta perché in fatto di emozionalità dei marchi esposti è sicuramente più attrezzato e paradossalmente potrebbe essere lui stesso la nuova locomotiva che porti finalmente la gente in centro a curiosare.

Ma il problema è soprattutto un altro e riguarda l’emozionalità del rapporto con il titolare dell’esercizio. Sappiamo, infatti, quanto gli ambulanti in piazza e i commercianti in negozio tendano a stabilire un feeling crescente con la propria clientela fatto di riconoscibilità, attenzione e rispetto, caratteristiche completamente inesistenti in un negozio, per di più a tempo determinato, che rispecchia invece la provvisorietà e la precarietà di un mercato sempre in ebollizione.

Men at work: ‘Ingresso libero’, ma sul serio

ingresso liberoMentre sui parcheggi, le ZTL e i nuovi Outlet la ‘piazza’ si agita, noi continuiamo imperterriti a sostenere la strada che promuove la service policy, beni e servizi alternativi e il ‘sorriso’ accogliente dei negozianti del centro storico.

Questa volta lo facciamo riportando una significativa testimonianza di un nostro amico di Firenze, Marco Crisci, che ci racconta come il cliente in centro desidera divertirsi come un bambino.

“Sono stato un bambino fortunato. Mio padre non mi volle privare di quelle beate ore di sonno che la frequenza dell’asilo mi avrebbe rubato prima della scuola dell’obbligo, e al mattino quindi potevo accompagnare mia mamma a fare la spesa, girovagando tra i profumi e le persone che affollavano le botteghe di Firenze.

Avevo così stilato una mia personale classifica di gradimento tra il freddo delle macellerie, la monotonia delle latterie e la colorita abbondanza e varietà di prodotti che facevano bella mostra di sé nelle pizzicherie. La mia simpatia verso quel particolare negozio era alimentata dalla colorita giovialità tipica del titolare e dai piccoli assaggi di parmigiano o di prosciutto che, col consenso di mia madre, egli mi offriva uscendo dal banco e porgendomeli direttamente dalle sue mani. Il mio sorridente annuire alla domanda di verifica del pizzicagnolo (“è buono, eh?”) confortava la mamma sull’opportunità dell’acquisto e io non vedevo l’ora di arrivare di nuovo al sabato, per poter assolvere il mio ruolo ormai acquisito di assaggiatore ufficiale di casa.

Ero piuttosto annoiato, invece, dai negozi di abbigliamento, nei quali mi sentivo trattato un po’ come un manichino, infastidito dal dovermi togliere il mio maglione preferito per provarmene una serie di nuovi, di cui onestamente non sentivo tutto quel bisogno. Rimasi invece colpito da quei primi negozi che sfoggiavano sulla porta d’ingresso la dicitura “ingresso libero”: capii che quella scritta significava che potevamo entrare liberamente, curiosare, toccare, rovistare, provare e addirittura potevamo uscire da quel negozio anche senza acquistare nulla, e nessuno si sarebbe sognato di guardarci storto ma, anzi, ci avrebbero tutti salutato con un sorriso sperando di rivederci presto. Una volta messo in guardia che se avessi rotto qualcosa sarebbero stati guai, il grande gioco dell’esplorazione poteva avere inizio e rapidamente inserii anche i grandi magazzini tra i miei negozi preferiti.

Facile, no? Tuttavia, mi racconta un amico che qualche anno fa gli fu commissionata una ricerca su una certa boutique del “quadrilatero della moda”, per cercare di capire il motivo della scarsa fidelizzazione della clientela locale, avendo rilevato una quota di clienti milanesi molto bassa rispetto alla clientela internazionale di passaggio. Il risultato fu banalmente spiazzante: i pochi scalini necessari ad entrare in quel negozio obbligavano il cliente a intraprendere un certo percorso prima di entrare in contatto con il prodotto; e le commesse, splendide ma non abbastanza amichevoli, contribuivano a raggelare il prodotto e l’ambiente, vanificando gran parte dell’appeal del negozio e del brand. Un cliente poteva entrare, attirato dall’allure evocata dall’insegna, dalla location esclusiva, dalla curiosità, dal desiderio di acquistare; ma non trovava al suo interno sufficienti stimoli per tornarci. Magari aveva anche acquistato, ma non si era divertito. Il prodotto era lontano dal cliente, difficile da raggiungere. Era mancato il contatto, l’elemento relazionale, ciò che avvicina il brand al cliente: che è un individuo pensante, con i suoi sogni, i suoi ricordi e le sue sensazioni.

Il negozio promette qualcosa, ma è il venditore che deve mantenere questa promessa. Tra gli elementi che costituiscono la strategia del dettaglio, troppo spesso ci dimentichiamo di focalizzarci su quello più delicato e bisognoso di manutenzione, che è la service policy, il dosaggio quali-quantitativo del livello di servizio. Tradotto in concreto: un sorriso sincero, un convinto saluto di benvenuto, un gesto spontaneo che non scoraggi il cliente a toccare il prodotto ma che, al contrario, lo inviti a provarlo, a immaginarlo già suo. Il cliente che decide di visitare una boutique, già fuori dal negozio pregusta l’inizio del film di cui si appresta a diventare il protagonista: il compito del venditore sarà quello di fargli da “spalla”, da “comparsa” durante tutta la scena; il venditore aiuterà il cliente a familiarizzare con un ambiente nuovo e pieno di sorprese, che è il negozio; gli descriverà la comodità del divano da cui ammirerà il tv al plasma che sta per acquistare, gli farà pregustare il sorriso della donna che riceverà in regalo l’anello che sta scegliendo. La nostra venditrice farà sussultare il cuore della sua cliente, lasciandole immaginare lo sguardo piacevolmente sorpreso che il suo uomo le rivolgerà, accompagnandola a teatro nella sua nuova “mise”.

E la nostra cliente sarà una diva, il nostro cliente sarà un uomo di successo, sicuro di sé; sarà stato confortato dal venditore nella correttezza della sua scelta, avrà vissuto il suo film da protagonista, avrà soddisfatto il suo bisogno d’acquisto ma, soprattutto, si sarà divertito. Quando gli consegneremo la shopper contenente l’oggetto dei suoi desideri, non sarà neanche necessario soggiungere “torni presto a trovarci!”: perché sarà lui che non vedrà l’ora di tornare, sicuro che, ancora una volta, potrà trovare nel nostro negozio qualcuno che lo aiuterà a vivere il suo film, a fare la sua scelta: qualcuno che lo aiuterà a divertirsi acquistando.

Ed il cliente si divertirà, come un bambino”.

Men at work: lo stress lavoro-correlato, cosa si sta facendo?


Men at work: lo stress lavoro-correlato, cosa si sta facendo?A partire dal 31 dicembre 2010 è scattato per tutte le imprese pubbliche e private l’obbligo di inserire nel Documento di Valutazione dei Rischi anche la valutazione dello stress lavoro correlato, come stabilito dall’Art. 28 del Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro, D. Lgs. 81/08.

Lo stress legato al lavoro rappresenta un rischio non certo nuovo per la diffusione che sta assumendo un pò dappertutto, ed è altamente probabile che il fenomeno aumenti in futuro, a causa di alcuni cambiamenti in corso nel mondo del lavoro.

L’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro ha individuato cinque aree di variabili che rendono emergenti i rischi di stress:
1 – utilizzo di nuove forme di contratti di lavoro (contratti precari) e l’incertezza e l’insicurezza del lavoro stesso (scarsità di lavoro);
2 – forza lavoro sempre più vecchia (poco flessibile e poco adattabile ai cambiamenti) per mancanza di adeguato turn-over;
3 – alti carichi di lavoro, con conseguenti pressioni sui lavoratori da parte del management;
4 – tensione emotiva elevata, per violenze e molestie sul lavoro;
5 – interferenze e squilibrio fra lavoro e vita privata.

Quindi è necessario che per valutare e fronteggiare i fattori lavorativi di stress, tutte le aziende analizzino la loro organizzazione secondo un percorso che prenda in esame tutte le variabili sopra indicate in modo da individuare le misure correttive più appropriate ed efficaci.

Ma qual è la situazione sul nostro territorio? In seguito ad alcune interviste effettuate su un campione di aziende di varia dimensione, pubbliche e private, pare che questo documento di valutazione venga vissuto più come un’ennesima incombenza burocratica che come un’opportunità da cogliere con serietà. In effetti, vi è un iter molto preciso che il datore di lavoro deve seguire in collaborazione con il medico competente e i lavoratori o loro rappresentanti.

La Commissione consultiva per la valutazione dello stress lavoro-correlato ha indicato alcune linee guida su come debba presentarsi questo documento:
Una valutazione preliminare che consiste nella rilevazione di indicatori oggettivi e verificabili, appartenenti quanto meno a tre distinte famiglie:

1) Eventi sentinella, quali ad esempio: indici infortunistici; assenze per malattia; turnover; procedimenti e sanzioni; segnalazioni del medico competente; specifiche e frequenti lamentele formalizzate da parte dei lavoratori.

2) Fattori di contenuto del lavoro, quali ad esempio: ambiente di lavoro e attrezzature; carichi e ritmi di lavoro; orario di lavoro e turni; corrispondenza tra le competenze dei lavoratori e i requisiti professionali richiesti.

3) Fattori di contesto del lavoro, quali ad esempio: ruolo nell’ambito dell’organizzazione; autonomia decisionale e controllo; conflitti interpersonali al lavoro; evoluzione e sviluppo di carriera; comunicazione (es. incertezza in ordine alle prestazioni richieste).

Ove dalla valutazione preliminare non emergano elementi di rischio da stress lavoro-correlato tali da richiedere il ricorso ad azioni correttive, il datore di lavoro sarà unicamente tenuto a darne conto nel Documento di Valutazione del Rischio (DVR) e a prevedere un piano di monitoraggio.

Diversamente, nel caso in cui si rilevino elementi di rischio da stress lavoro-correlato tali da richiedere il ricorso ad azioni correttive, si procede alla pianificazione ed alla adozione degli opportuni interventi organizzativi, tecnici, procedurali, comunicativi, formativi, etc. Ove gli interventi correttivi risultino inefficaci, si procede alla fase di valutazione successiva (c.d. valutazione approfondita).

Naturalmente, non appena questa valutazione è diventata obbligatoria, il datore di lavoro si è trovato subito di fronte all’offerta di software, questionari standard, procedure pronte per essere facilmente applicate, nonché proposte ‘chiavi in mano’ di consulenti e società specializzate sulla sicurezza. Ma quello che sta mancando soprattutto è la consapevolezza da parte del datore di lavoro dell’importanza di una valutazione che ben si adatti alla propria realtà aziendale. Infatti, un’analisi ambientale approfondita e aiutata da strumenti di analisi del lavoro e del ben-essere (clima) organizzativo, potrebbero offrire una fotografia più chiara di quelle che sono veramente le cause oggettive e soggettive dello stress lavoro-correlato.